This war of mine
Pavlev è appena tornato dal luogo in cui questa notte ha rovistato. Ha riportato a casa dei materiali: metallo, legna, e componenti elettrici che permetteranno a lui, e ai suoi compagni, di costruire finalmente una stufa. È stato fortunato, ha trovato anche del cibo crudo e delle verdure e Bruno, che dei tre è il più capace in cucina, sul fornello rudimentale potrà preparare qualcosa di commestibile. Pavlev è stanco, si muove da una stanza all’altra lentamente, le braccia cadenti, il capo ripiegato sul petto, ha bisogno di riposo. La casa inizia a raffreddarsi, presto avranno bisogno di molta più legna per scaldarsi, ma i ladri che sono entrati la notte scorsa hanno rubato l’accetta che faticosamente avevano costruito e non sarà facile costruirne una nuova. Senza accetta, non potranno spaccare i mobili inutilizzati della casa, e senza legna non potranno scaldarsi, si ammaleranno con più facilità, e ammalarsi significa avere più probabilità di morire. C’è qualcuno alla porta, è l’uomo dei baratti che periodicamente viene ad offrire le sue mercanzie in cambio di altri oggetti. Hanno bisogno di Katia, è lei la più capace a mercanteggiare, ma Katia si è appena sdraiata, stanca per il turno di guardia, e ridestata dal sonno si trascina fino alla porta d’ingresso. Analizza gli oggetti che l’uomo le offre, sarebbe molto utile chiedere un’arma per difendersi meglio durante la notte quando, impegnati a rovistare con uno dei personaggi, gli altri due difendono la casa dagli intrusi, ma Bruno è ancora ferito e Katia dovrà dunque cedere la bottiglia di alcool distillato, unico loro bene di valore, in cambio di medicine e bende.
Stiamo giocando a This war of mine, civili alle prese con una guerra che infuria all’esterno, potrebbe esser la guerra balcanica, così come una qualunque guerra del medio oriente, quella della Siria per esempio, dell’Afghanistan, o del Donbass in Ucraina, guerre tra gli eserciti che si trasformano presto in guerre civili, combattute tra popoli di diversa etnia che fino al giorno prima convivevano pacificamente, che si declinano in una lotta quotidiana per la sopravvivenza.
This war of mine è un videogioco gestionale, così lo si definisce, un gioco cioè dove si prendono delle decisioni, si pianificano delle strategie, si fanno scelte, a volte complesse, dalle quali può dipendere l’esito della partita e la sopravvivenza o la morte dei nostri personaggi. Le musiche che lo accompagnano rendono l’esperienza di gioco particolarmente immersiva, viviamo in una sorta di tensione costante, col battito cardiaco sempre un po’ accelerato, con la paura che una qualunque nostra azione possa determinare il tracollo dell’impresa, o metterci in pericolo di vita. Ogni scelta che facciamo, cosa costruire come primo oggetto o come secondo, cosa barattare, cosa raccogliere nelle spedizioni notturne, chi far mangiare per primo, chi curare e chi invece lasciare ferito per qualche giorno, sicuri che la sua tempra sia più forte, è una scelta che attiva una quota di tensione.
In This war of mine, così come negli altri giochi gestionali, è importante domandarsi – se stiamo osservando qualcuno che vi gioca – come analizza le informazioni il giocatore? Come le utilizza? Perché l’utilizzo delle informazioni ha a che fare con la vita, è la capacità, della mente neonata prima e di quella matura poi, di dare un ordine alle sensazioni e poi alle percezioni prodotte dalla realtà, di organizzarle, catalogarle, attribuire loro un senso. Negli adolescenti, che attraversano una ri-nascita, viste le importanti trasformazioni neurobiologiche del loro cervello, questa funzione richiede una rivisitazione, una sorta di revisione, che rientra in uno dei loro compiti evolutivi: la riorganizzazione dei propri pensieri, il nuovo punto di vista sul mondo, la capacità di costruire una propria lente di interpretazione dei fatti reali, di acquisirli, tollerarli, leggerli, interpretarli, dare loro un ordine mentale per poter essere recuperati, utilizzati e divenire, col tempo, ciò che contribuisce a strutturare nuovi valori, nuovi ideali, nuove mete a cui ambire.
Questo ha a che fare con l’esplorazione del mondo, con la capacità di entrarvi in relazione, di comprenderne il funzionamento e le regole che lo contraddistinguono.
Il dodicesimo giorno Pavel, al suo rientro è accolto da notizie terribili, Katia, da sola, non è riuscita a difendere la casa – sola perché Bruno è ancora ferito e necessita di riposo – i ladri sono entrati e hanno portato via ogni scorta di cibo. Adesso hanno tutti e tre molta fame, e le ferite di Bruno stanno peggiorando, non potranno resistere ancora molto a lungo. La notte successiva è Katia ad uscire di casa per rovistare, tenterà di racimolare del cibo in un villino all’apparenza abbandonato nei pressi della vecchia stazione. Ma lo scenario che Katia si trova ad affrontare è del tutto inaspettato, la casa non è disabitata, bensì vi dimorano un uomo e suo padre, vecchio e malato, e lei non ha portato niente con sé per proporre un baratto.
Nonostante le preghiere dell’uomo di non approfittarsi della loro debolezza, di non frugare in casa e di non privarli delle loro provviste, di fronte al dilemma morale “O noi, o loro” Katia decide di rubare tutto il cibo in scatola che i due uomini possiedono, utile ad allungare di un paio di giorni la sua vita, e quella dei suoi compagni.
Sebbene le parole dei due uomini – così ci condanni a morte sicura – sia straziante, come giocatori possiamo chiudere gli occhi, negare a noi stessi la violenza del nostro gesto, dirci che è soltanto un gioco, che adesso l’importante è la sopravvivenza dei nostri personaggi, che la prossima volta magari ci comporteremo meglio. Ma tornati a casa accade qualcosa di totalmente imprevisto: Katia è disperata, racconta ai suoi compagni cosa è stata costretta a fare, e nonostante le loro rassicurazioni, la loro indulgenza, il loro tentativo di alleggerire le conseguenze dell’azione, Katia si chiude in uno stato depressivo sempre più profondo. Si sdraia sul letto sognando i due uomini e il suo furto, si sveglia in preda all’ansia e al senso di colpa, non riesce a perdonarsi. Nelle ore successive Katia non riesce a recuperare energie, il suo stato emotivo sembra gravare sulla stanchezza fisica, esattamente come accade a noi quando ci sentiamo depressi. Muoverla, affidarle dei compiti, spostarla da una parte all’altra della casa diviene difficile, come se gradualmente non rispondesse più ai comandi. La capacità di alcuni bravi game designer di far identificare completamente il giocatore col personaggio protagonista del gioco non si si esaurisce, infatti, con la forza della trama, i più bravi fanno provare al giocatore ciò che prova il personaggio anche con altri mezzi, per esempio facendo leva sul controllo, cioè sul joystick. Ecco, lo sforzo necessario per rianimare Katia, la difficoltà di controllarla e il senso di impotenza che pervade il giocatore di fronte alla sua riluttanza a rialzarsi, permettono di provare qualcosa di similare a ciò che prova il personaggio: la rabbia e il senso di sconfitta. Questo costringe il giocatore a domandarsi dove Katia abbia sbagliato, che cosa di diverso avrebbe potuto fare, ed ecco che quel meccanismo di negazione che abbiamo utilizzato poco prima – Tanto è soltanto un gioco. Non è la realtà. Adesso devo pensare a finire la partita – improvvisamente viene meno, costringendoci a riflettere che le nostre azioni hanno delle conseguenze, fisiche ed emotive, sugli altri e su di noi, e forse la prossima volta non sceglieremo così a cuor leggero, non metteremo a tacere quella voce, squisitamente umana, che tutti noi possediamo, e che ci dice quello è un tuo simile, un umano come te, e tu lo stai condannando a sofferenza e morte certa. Giocare a This war of mine, così come a molti giochi gestionali, è giocare a scegliere, a pensare, ad assumersi responsabilità e a maturare valori e ideali, ciò che in adolescenza, più che in ogni altra fase della vita, l’uomo è chiamato a fare.
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