Ma che lingua parla mio figlio?

da | Set 4, 2020 | News

MOBA, MMORPG, killare, AFK, shoppone, DPS, niubbo… il gergo di Internet e dei videogiochi è una varietà linguistica elaborata e utilizzata dalle comunità di utenti che rende a volte impossibile per chi non fa parte la comprensione di ciò di cui si sta parlando. Queste nuove parole e sigle, originate spesso per consentire un risparmio di movimenti sulla tastiera, sono entrate a far parte del linguaggio comune di bambini e adolescenti che, usandole quotidianamente nel mondo online, si ritrovano ad impiegarle anche in altri contesti, come la scuola e la famiglia.

Il dialetto virtuale infatti è profondamente versatile e assume le fattezze di un’autentico slang compreso in modo intuitivo solo dai navigatori esperti, rafforzando così il senso di appartenenza ad una comunità elitaria che attraverso il linguaggio riesce ad escludere dalle proprie conversazioni chi non è parte del gruppo. Per quanto questo tipo di comunicazione sembri a prima vista riduttiva e sgrammaticata, in realtà contiene migliaia di sfaccettature e significati diversi facilmente fraintendibili da frequentatori non abituali del mondo virtuale. Così, in alcuni ambienti, inserire un punto alla fine di una frase significa che stiamo comunicando in modo risoluto ed aggressivo, la scrittura di parole in maiuscolo assume il significato di un urlo e l’uso dell’acronimo LOL (Lots Of Laughts, ovvero ridere a crepapelle) diventa sarcastico e non esprime l’essere divertiti.

Se comprendere il linguaggio di Internet è sempre più importante per non correre il rischio di fraintendimenti e male interpretazioni, lo diventa ancora di più quando conviviamo con ragazzi e ragazze che passano il loro tempo libero a giocare online. Il lessico usato nei giochi online assume le fattezze di uno slang particolarmente ostico da interpretare dalla comunità dei non-gamers e, nel 2018, ha anche attirato l’attenzione dell’Accademia della Crusca che ha pubblicato un articolo sui termini più usati nei giochi di ruolo online (GDR o RPG dall’inglese, Role Play Game). Ricercando le origini e il significato di questi neologismi nelle varie comunità di gamers, è stato riscontrato che nonostante le barriere geografiche, temporali e fisiche, è proprio l’adozione di un linguaggio caratteristico che consente di superare queste differenze per sentirsi parte di un gruppo unitario: è la lingua che crea l’identità riconosciuta della comunità dei giocatori e la sua padronanza che ne determina l’appartenenza. Questo ruolo sociale della lingua consente di definirla un gergo, una varietà linguistica specifica di un gruppo ben definito; i membri del gruppo la utilizzano proprio per riconoscersi appartenenti alla stessa comunità. Spesso si tratta di una lingua volutamente criptica, allo scopo di non farsi intendere da coloro che ne sono estranei, declinata in maniera specifica per il tipo di piattaforma e/o di gioco che stiamo utilizzando per permetterci di riconoscere con poche parole chi è “simile” a noi, ovvero fa parte del nostro gruppo, e chi invece ne è fuori. Questo gergo può quindi essere generale e comuni a tutti i gamers (es. “sonari” o “boxari”, sono due parole che definiscono chi usa principalmente playstation o xbox per giocare) o altamente specifico per tipo di gioco (es. fare una scrim, partita non competitiva di allenamento tra due o più giocatori, usato principalmente in Fortnite, Counterstrike e Battlefield).

Tra i termini più comuni, usati anche nel linguaggio quotidiano di molti ragazzi, troviamo ad esempio la parola niubbo ed i suoi derivati (nabbo, newb, noob, nub…): impiegata trasversalmente in molti tipi di gioco, in forum e blog, è un adattamento italianizzato della parola inglese newbie (dal lessico militare, nuova recluta, pivello) che può indicare nuovi utenti che entrano a far parte del nostro gruppo oppure essere usato come insulto verso giocatori incapaci. Opposto a niubbo, troviamo il termine pro (da professionista), da dire ad una persona che riteniamo veramente skillata (abile, capace; derivato dall’italianizzazione di skill, abilità), che oggi viene largamente usato anche fuori dai videogame (“sono proprio pro a tennis, ultimamente vinco tutte le partite”). Non è inusuale sentire qualche ragazzo dire a dei suoi compagni che ha “fatto schermata blu” o “ha crashato”, anche in riferimento ad un’interrogazione a scuola dove non si è stati capaci di rispondere alle domande. Inoltre, anche molte delle abbreviazioni usate per comunicare velocemente in gioco, spesso escono dal loro contesto per entrare nel parlato comune, in chat di Whatsapp, stati di Instagram e storie di TikTok, come ad esempio AFK (away from keyboard, lontano dalla tastiera), BRB (be right back, torno subito), ASAP (as soon as possible, il prima possibile), gg wp (good game well played, bella giocata, ben fatto) e così via.

L’uso di queste abbreviazioni nasce sì per la necessità di una scrittura veloce, che gioca certamente un ruolo importante mentre siamo in partita, ma diventa consuetudine quando viene percepita come fattore inclusivo e condiviso dalla comunità alla quale si desidera appartenere, portando queste forme ad essere impiegate anche fuori dai loro contesti di nascita, in quanto sottese a determinate dinamiche sociali.

Così, nelle comunità di gamers, spesso è la conoscenza del gergo a garantire l’appartenenza al gruppo e l’accettazione in esso; chi dimostra di non avere padronanza del vocabolario spesso viene ignorato, escluso o emarginato. L’uso del gergo è prodotto della necessità di integrarsi in una comunità estremamente chiusa e selettiva, che cerca di escludere dalla propria comunicazione chi non ne fa parte. Lo stesso meccanismo viene attuato dai ragazzi nei confronti degli adulti, creando una barriera linguistica in cui la comunicazione spesso si interrompe o viene fraintesa. Imparare a parlare anche parzialmente “la loro lingua”, senza sentire il bisogno di correggerli o di tradurre costantemente, ci permette di comprendere meglio quello che stanno facendo, di non sentirci persi o spaesati durante i loro racconti e di farci includere, seppur in maniera tangenziale, nel loro mondo, diminuendo di qualche passo la sensazione di distanza che a volte il mondo online ed il gap generazionale possono creare.

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