Vorrei inaugurare questa rubrica su Playoff scrivendo il primo articolo su Fortnite, un videogioco che negli ultimi tre anni ha movimentato le giornate, e le nottate, di molti ragazzi tra gli undici e i vent’anni circa. Una rubrica, questa, che desidera raccontare da un particolare punto di vista – quello di chi di lavoro fa lo psicoterapeuta dell’età evolutiva – il rapporto tra l’infanzia/adolescenza e il mondo videoludico.

Fortnite, pubblicato da Epic Games nel 2017, e categorizzato come uno sparatutto in terza persona, fin dalla sua uscita ha avuto un impatto eccezionale sul mondo dei videogiocatori, soprattutto dei ragazzi, diffondendosi a macchia d’olio, venendo in breve tempo scaricato da milioni di utenti, animando le chiacchiere in classe, le chat su Whatsapp, i video caricati su Youtube e i canali streaming di Twitch (la piattaforma dove è possibile giocare in diretta e venire seguiti dai nostri seguaci). Una delle motivazioni di una tale rapida diffusione è probabilmente legata, come mi ha spiegato uno dei miei pazienti tredicenni, al fatto che venisse lanciato sul mercato in forma gratuita e questo, sempre, attira l’attenzione dei ragazzi, perché non è necessario pregare i genitori per averlo, e perché un gioco gratis è gratis, perché non provarlo? Gli adulti, tendenzialmente, si lamentano che i loro figli passano ore alle prese con questo gioco di guerra dal nome stano, oppure col solito gioco in cui si deve ammazzare tutti, ma Fortnite non è propriamente un gioco di guerra bensì un Battle Royale, una battaglia online in cui l’obiettivo finale è restare in vita, e allo stesso tempo eliminare più avversari possibile. Giocando a Fortnite non ci troveremo catapultati dentro uno scenario bellico, come in Call of Duty o Battlefield, bensì saremo circondati da foreste, montagne rocciose, villette in collina, piccole città, aeroporti, laboratori, eccetera, e in questo mondo si muovono altri giocatori, di solito novantanove, che giocano individualmente o in squadre formate da due o da quattro persone, e vincerà la partita l’ultimo rimasto in vita, o l’ultima squadra – o ciò che ne resta -. Perché Fortnite appassiona tanto i ragazzi? Perché gli adulti gridano terrorizzati alla dipendenza da Fortnite?

Fortnite, dal punto di vista di chi si occupa di critica dei videogiochi, non è un gioco particolarmente bello, non possiede una trama coinvolgente, non è innovativo dal punto di vista della giocabilità e viene descritto come piuttosto ripetitivo, ma ha in sé una serie di caratteristiche in grado di coinvolgere chi vi gioca, soprattutto se sono ragazzi. La grafica è accattivante, i personaggi sono disegnati con un tratto fumettistico che ricorda i cartoni animati, con forme rotondeggianti e colori sgargianti, le partite sono abbastanza rapide, e lo stato di costante allerta tiene il giocatore in forte tensione. Fortnite è un gioco rapido, adrenalinico – aspetto questo che piace ai ragazzi che per natura, cioè a causa dei cambiamenti neurobiologici tipici della loro età, sono spinti a cercare esperienze attivanti – è un gioco in cui è necessario pensare rapidamente, finché i movimenti sul campo di gioco diverranno quasi automatici, una forma di prolungamento del modo di orientarci e spostarci nello spazio. Fortnite costringe a domandarci se siamo tipi spregiudicati – mi interessa lanciarmi nella lotta, uccidere più avversari possibile, le kills – oppure tipi più attendisti, che preferiscono restare nell’ombra – nel gergo camperare – fino agli scontri finali, quando il gioco restringe la mappa e si è costretti ad affrontare gli avversari. In Fortnite, inoltre, è possibile costruire: uno degli strumenti di cui l’avatar è dotato fin dall’inizio è un piccone col quale sarà possibile colpire gli alberi, le rocce o qualunque oggetto prodotto dall’uomo – case, macchine, negozi – per ottenere pietra, legno e metallo utili alla rapida costruzione di superfici che il gioco disporrà nello spazio a seconda della direzione in cui ci sposteremo. Il giocatore potrà dunque creare stanze, rampe, torrette, ponti, scale e scalette, dove arrampicarsi per occupare una posizione rialzata, o nascondersi se il nemico lo ha colpito o ferito, o dove intrappolare l’avversario per eliminarlo più facilmente. È ammirevole, e anche stordente, osservare Ninja – il primo grande campione di Fortnite – o Bugha – l’ultimo campione del mondo – costruire edifici per avvicinarsi al nemico e allo stesso tempo abbattere quelli degli avversari, in un saliscendi di piani e scale che richiede una notevole abilità strategica e una grande rapidità nella scelta dei movimenti. Nessun gioco prima dell’uscita di Fortnite aveva integrato così efficacemente questi due processi umani: la creazione e la distruzione. Anzi, più correttamente, la creazione finalizzata alla distruzione – quella dell’avversario -.

Questi elementi, la rapidità, la pianificazione, la strategia, la precisione, la possibilità di costruire hanno a che fare con le trasformazioni tipiche dell’adolescenza, gli adolescenti, infatti, sono alle prese con un cervello che muta, che pensa più rapidamente, che spinge a porsi domande su di Sé e sul mondo, a formulare ipotesi e teorie, ma che allo stesso tempo li rende più impulsivi e dunque li costringe a cercare un modo per autoregolarsi. Ma l’aspetto squisitamente adolescenziale più importante di Fortnite, è la possibilità di socializzare. È infatti necessario discriminare se un ragazzo gioca a Fortnite da solo o con gli amici, chi gioca con gli amici sta usando il gioco in una modalità che permette, se ben utilizzata, di allenare un compito fondamentale dell’adolescenza, e dell’umanità in generale, la capacità di collaborare, di studiare strategie comuni, di fare squadra, di divertirsi insieme.
Si può dunque ben capire, dopo questa breve descrizione, che è improprio definire il tempo speso a giocare a Fortnite come dipendenza. Nessuna delle dipendenze più diffuse – tabacco, alcool, sostanze stupefacenti o gioco d’azzardo – ha a che vedere con il lavoro mentale, la strategia, l’abilità di movimento, la capacità di mira, la pianificazione motoria, necessari al raggiungimento dello scopo finale come avviene invece in un gioco come Fortnite. Non voglio dire che Fortnite non produca nel nostro cervello reazioni tali da procurarci soddisfazione, quello che voglio dire è che questo piacere è legato a un insieme complesso di azioni tanto importanti – e utili – quanto la meta finale.

Se vogliamo avanzare una critica a Fortnite, o a quei giochi che tengono i ragazzi molte ore incollati allo schermo di un telefono, di una tv, o al monitor di un computer, dobbiamo innanzi tutto ripensare a quale sia stata la nostra capacità – negli anni precedenti – di regolare il tempo di utilizzo degli apparecchi elettronici, la nostra capacità di negoziare, di spiegare le possibili reazioni di tensione fisica, irritabilità o ipereccitabilità che gli apparecchi elettronici possono produrre. Fortnite, inoltre, è un perfetto prodotto della società odierna: eliminare tutti gli altri per restare gli unici in vita. Il messaggio che in qualche modo trasmette ai ragazzi potrebbe essere riassunto così: Soltanto il migliore ce la farà. O ancora: Elimina tutti gli altri e tu sarai speciale, il più bravo, il re assoluto (Royale come reale, o regale appunto). Fortnite mostra di conoscere così bene quanto la nostra società sia centrata sull’individualità, sul successo del più forte, sul prestigio come unica e massima espressione di Sé, che ci offre anche qualcos’altro: la possibilità di renderci unici. Ci permette cioè di acquistare delle skin – dei costumi – o degli oggetti, che il nostro personaggio potrà indossare rendendoci speciali, diversi dagli altri e allo stesso tempo riconoscibili. Oggi, infatti, non si tratta soltanto di dover trionfare a tutti i costi – pena la condanna a sentirsi delle totali nullità – ma anche di poter essere desiderati, ammirati, invidiati dall’altro. Ecco che il gioco gratuito, gratuito non lo è più, e finisce che un ragazzo pur di avere la skin all’ultimo grido, un piccone o un aliante speciale, spenderà molto di più di quanto non avrebbe mediamente speso per acquistarsi un qualsiasi altro videogioco. Non sto affermando che Fortnite non debba essere giocato, sto pensando che Fortnite sia un gioco – come tutti gli altri del resto – che andrebbe pensato con i ragazzi, problematizzato, utilizzato dagli adulti per avviare delle riflessioni che li coinvolga. Altrimenti i ragazzi rischieranno di rispondere alla delusione della sconfitta provandoci ancora, e poi ancora, e ancora, in una pericolosa spirale composta di frustrazione e rabbia che ingigantisce il loro senso di inadeguatezza, colmando in pericolosi scoppi d’ira o in un compulsivo acquisto di gadget per alleviare la vergogna e la sensazione di non avere alcun valore. La qualità migliore di Fortnite, in un senso diametralmente opposto, risiede invece nella possibilità di trascorrere del tempo con gli altri, di cooperare per migliorarci, ma anche di riuscire a ridere insieme – se possibile – dei nostri errori e delle nostre incapacità.

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