Hideo Kojima è per il mondo videoludico il corrispondente di ciò che Kubrick o Mihazaki sono stati per il cinema. Dalla sua creatività sono nate le saghe di Metal Gear e Silent Hill.

Nel 2019, dopo anni di attese, è uscito Death Stranding, la sua ultima creazione, gioco che ha fatto discutere per lunghi mesi il mondo videoludico. Death Stranding non è solo un videogioco, è anche un’opera filosofica, scrivono i recensori, una straordinaria metafora dell’odissea dell’uomo sul pianeta Terra. Dal mio punto di vista, Death Stranding racconta, in maniera indiretta e come pochi altri giochi, il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Costringe a un’operazione mentale di cui tutti i bambini sono maestri, la sospensione dell’incredulità, la capacità di dire ciò che si pensa, e di pensare senza condizionamenti sociali, quasi per associazione libera, si direbbe in psicoanalisi, trovando connessioni tra le cose del mondo là dove gli adulti di solito connessioni non vedono. Si direbbe che Kojima, nell’aver creato Death Stranding, si sia concesso il lusso di tornare bambino e di offrirci la possibilità, in quanto Sam Porter (protagonista del gioco) o in quanto Norman Reedus, l’attore che dà corpo e voce a Sam, di fare lo stesso, sospendere ancora una volta la nostra incredulità – soprattutto se siamo giocatori adulti-. Ecco perché Death Stranding ha diviso critica e pubblico, proprio come spesso è diviso il pubblico che osserva gli adolescenti – da un lato chi li vede oziosi, viziati, sdraiati, indolenti, irresponsabili, dall’altro chi invece li vede impauriti, fragili e allo stesso tempo curiosi, energici, pronti a nuove straordinarie avventure -, da una parte dunque chi, come il bambino o l’adolescente, è capace di porsi delle domande e di fantasticare, dall’altra chi invece ha perduto la propria capacità immaginativa.

Si può dunque ironizzare su Death Stranding appellandolo come il gioco che narra la storia di un corriere che trasporta pacchi da un luogo all’altro di un continente – quello americano – la cui superficie è stata totalmente stravolta dagli esiti di un’apocalissi, oppure pensare che Kojima ci offra una vera e propria esperienza onirica, in cui possiamo sognare i nostri sogni, e metaforicamente rivivere il passaggio più doloroso, quello in cui si diviene grandi, rischiando di omologarci alle regole sociali e di interrompere, appunto, la nostra capacità di sospensione dell’incredulità. Il corpo di Sam caracolla sulla superficie terrestre, goffo e sgraziato, gravato dai pacchi che abbiamo deciso di trasportare, e con Sam caracolliamo anche noi giocatori – quella capacità del web designer di farci identificare anche con altri mezzi, oltre alla forza immersiva della trama, al personaggio che stiamo interpretando – facendoci provare letteralmente la goffaggine del protagonista, come goffi e sgraziati sono i corpi dei preadolescenti che solcano questa loro terra di mezzo, arricchiti delle nuove dotazioni fisiche che ancora non padroneggiano, e con uno scopo che ricalca esattamente quello che ai miei occhi rappresenta uno dei compiti evolutivi più affascinanti dell’adolescenza: socializzare, connettere, mettere in relazione, creare dei legami, delle nuove dipendenze e appartenenze.

Sam infatti unisce gli essere umani rimasti soli, o riuniti in piccole comunità, affrontando lunghi e pericolosi viaggi. Metà esploratore, e metà cartografo, come gli adolescenti modella il territorio che va scoprendo, anima nuove vie e nuove rotte. Affronta con coraggio le terribili creature che adesso popolano il pianeta, esseri sospesi tra il mondo dei vivi e quello dei morti, i due mondi che, come suggerisce il titolo Stranding, si sono incagliati uno nell’altro. È impossibile non farsi suggestionare dall’idea che il gioco non rispecchi il fatto che l’adolescente viva esattamente questo tempo, quello di una morte metaforica, di un’infanzia che tramonta e di un’età adulta che sorge, o non ricalchi la sfida costante alla morte, come ricerca di un limite al proprio corpo per testarne resistenza e tenuta, corpo talvolta ferito, segnato, dipinto, affamato, come lo è quello di Sam, verso un’integrazione che è accettazione dell’idea di una finitezza e vulnerabilità di sé.

Sam inoltre, durante i suoi viaggi, non si separa mai dal suo Bridge Baby, il bambino ponte, bambini feto conservati in una teca protettiva, come un’incubatrice, che ogni corriere porta con sé, poggiato sopra la pancia, perché appartenendo contemporaneamente a entrambi i mondi i Bridge Baby possiedono una sensibilità superiore e possono avvertire il corriere, in una sorta di simbiosi, dei pericoli in avvicinamento, e allo stesso tempo, penso io, rappresentano la parte fragile da traghettare verso il mondo adulto, così come la linfa vitale, la capacità di meravigliarsi, di stupirsi, di fantasticare, necessaria ad affrontare la vita, in viaggi mozzafiato, costellati di pericoli, dove appunto come in un sogno incontreremo cetacei spiaggiati, pesci morti caduti dal cielo o uomini sospesi, in un paesaggio primitivo, a tratti lunare, composto da brughiere inospitali, distese solforose, lagune, montagne innevate, crepacci verdi profondissimi.

Sam è solitario e fobico, è affetto cioè da afefobia una patalogia per cui il contatto fisico segna profondamente la sua pelle, come se la bruciasse, metafora di una società che rischia di isolarci e allontanarci sempre di più, mettendoci gli uni contro gli altri, accentuando rivalità e competizioni, costringendoci alla tirannia dei desideri da realizzare, pena la vergogna, l’isolamento e il ritiro per chi non abbia la forza di stare al passo con queste richieste. Ma Sam non si tira indietro, e qua sta la dimensione eroica adolescenziale, porta pacchi, e allo stesso tempo connette gli uomini, perché Strands sono anche i fili, quando si diramano da un centro e si intrecciano, si frammettano e si disperdono. Crea connessioni e usufruisce delle connessioni create dagli altri, perché appunto l’adolescenza è il tempo delle nuove appartenenze, e delle nuove dipendenze, e di una lotta per costruire un Sé, ma anche una comunità di Sé, che necessita degli altri. Il giocatore giungerà all’unica conclusione che conta: da soli le difficoltà non si possono affrontare, bisogna aiutarsi a vicenda, anche con persone che non conosciamo e non vediamo.

Death Stranding è infatti un gioco che si può giocare individualmente, oppure si può giocare online, senza conoscere gli altri giocatori, ma usufruendo delle loro strade tracciate, dei loro percorsi, delle costruzioni – ponti, teleferiche, picchetti – che hanno creato prima di noi, in una sorta di rete sociale che si rinnova, che si rigenera, dove l’altro non è più il nemico, o il diverso di cui sospettare – come di solito accade invece nei giochi online multigiocatore, dove quasi sempre l’altro, lo sconosciuto, è il nemico da sconfiggere -, in Death Stranding l’altro è colui dal quale si può apprendere, e con il quale si può crescere e insieme costruire, o ri-costruire una comunità, una civiltà, e dove le culture, i diversi punti di vista sulla vita, si incontrano, si intrecciano e si contaminano a vicenda.

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